Quale futuro per il “vecchio” VI grado? (2008)

Nella foto il famoso VI grado superato sul Diedro del Mistero da Danilo Galante (1974)

Quale futuro per il “vecchio” VI grado?

Ricordo ancora l’emozione che provai quando, oramai più di 20 anni fa, affrontai il mio primo VI grado. Avevo letto in proposito innumerevoli racconti, sognato per anni su quella cifra, almeno quanto un arrampicatore sportivo di oggi sogna sull’8a. Mi sembrava impossibile, ma ci stavo finalmente arrivando. Ma salire il VI grado di allora, quello che oggi qualcuno chiama “VI grado classico”, non era come bere un bicchier d’acqua! Avevo scelto per l’occasione lo Spigolo Bianciotto a Rocca Sbarua, il primo VI grado del Piemonte, salito in scarponi da Bianciotto nel 1934 (!!). Su 40 m c’era un chiodo o forse due, adesso non ricordo… quello che invece non scorderò è la paura che ebbi quel giorno così importante! Il VI grado è sempre stato per me sinonimo di libera, di grande libera, tanto che si potrebbe scrivere una storia su ogni passaggio di questo grado superato nel corso degli anni da valenti alpinisti e provetti arrampicatori. A volte poi non esistono più le vie, ma solo quei passaggi o tratti di VI grado: l’apritore viene identificato con essi, è come se trasferisse la sua identità ad una cifra, un numero. Potremmo stare all’infinito a disquisire se fu vero VI o no, in eccesso o in difetto, in libera o meno, ma dobbiamo comunque riconoscere che la magia di queste storie è legata a quel numero e, metterlo in dubbio, equivarrebbe a distruggerla.

Non è mia intenzione fare qui la storia del VI grado dagli albori ad oggi, non ne avrei le capacità…. anche se la cosa mi ha sempre affascinato quanto una difficile salita, sempre lì in un angolo della tua testa, ma che non ti decidi mai ad attaccare. Forse prima o poi troverò il coraggio… ma per ora mi preme solo ricordare che il VI grado non è stato sempre sinonimo di libera. E’ infatti cosa nota che negli anni ’40-60, e addirittura nei primi anni ’70, era inteso piuttosto come limite delle possibilità umane. E pertanto, proprio perchè si era al limite, era lecito ricorrere a tutti i mezzi in proprio possesso per passare non essendoci, come oggi, precise regole etiche che definivano l’arrampicata libera. Sesto e sesto superiore erano le valutazioni in quei tratti di estremo impegno, sovente di arrampicata mista, dove la libera lasciava spesso il posto ai chiodi ed alle staffe. Solo dopo il “VII grado” di Messner, con la riaffermazione della libera pulita sul modello americano ed inglese, il VI grado parve riacquistare momentaneamente dignità.

Negli anni ’70, ad esempio, abbiamo assistito ad un fiorire di VI gradi ben difficili, forse più difficili di quelli superati dai padri storici come Solleder, Carlesso, Vinatzer… ma comunque sempre valutati con la stessa magica cifra. Addirittura alcuni alpinisti, sull’esempio di Messner ed in polemica con la scala chiusa, presero a valutare VI o VI- passaggi palesemente più difficili, giustamente non ritenendosi in grado di raggiungere “il limite delle possibilità umane”. Nonostante il riconoscimento del VII grado da parte dell’UIAA (1977), notoriamente tardivo (si parla infatti di sesto grado in Sassonia già nel 1906 e VII grado nel 1918!), per buona parte degli anni ottanta si continuò a valutare VI passaggi ben più duri, e questa volta in libera, sovente obbligatoria. Ci fu insomma un ritorno alle origini… Ma come credere che il VI di Manolo potesse essere uguale a quello di Solleder, cinquant’anni dopo?

A molti di noi è capitato di confrontarsi con i “VI anni settanta”. Essi hanno segnato in modo indelebile la nostra storia alpinistica: i VI dell’ultima generazione di “pseudo-sestogradisti” come quelli Manolo, di Bini, di Mariacher, di Galante, di Bernardi e di Guerini hanno fatto epoca almeno quanto quelli dei pionieri. Continuiamo insomma nel mito del VI grado, pur sapendo che le capacità aumentano, la tecnica si affina e la scala nel frattempo si è aperta verso l’alto. Così chi oggi compila una guida e si trova a dover valutare queste vie, ha una bella gatta da pelare! Rivalutare, omogenizzare, oppure lasciare le cose come stanno? Di fatto ognuno fa la sua scelta e se ne vedono insomma di tutti i colori; ci sono addirittura sesti che diventano 6c, cioè VII+! Viene allora da domandarsi quando ebbe origine l’errore, se errore c’è stato. Si sbagliava allora per difetto e mancanza di riferimenti, o si sbaglia oggi per sovrastima delle nostre attuali capacità e scarsa coscienza storica? Questa questione è ancora oggi un nodo da sciogliere e divide, di fatto, le opinioni di alpinisti ed arrampicatori, provocando infinite discussioni. Una parte vorrebbe una valutazione più severa, anche in falesia, sostenendo che i gradi attuali non poggiano sulla tradizione del VI grado “classico”. Dall’altra c’è invece chi sostiene che l’arrampicata sportiva ha portato un tale progresso nelle capacità da far schizzare verso l’alto la scala. E pertanto, paragonando le difficoltà classiche dei pionieri con quelle odierne, esse andrebbero rivalutate: scopriremo un giorno che Solleder nel 1925 non fece il primo VI grado ma il primo 6c?

E’ importante ricordare, a questo punto, che l’arrampicata sportiva ha portato a poco a poco anche sulle grandi pareti il concetto di rotpuntk, e con esso di tiro inteso come entità ben definita. La libera, fino a quel momento concepita come passaggio, ora viene di fatto omologata solo se fatta da sosta a sosta. E’ un concetto importante che ha rivoluzionato le cose. Anche se in certe zone non sembra ancora del tutto assimilato, tanto che le relazioni indicano ancora i passaggi, senza tenere conto della continuità, come se fosse scontato riposarsi sui chiodi tra una sezione e l’altra. Ma se ci adeguassimo a questa tendenza, come è ovvio e lecito supporre, i VI classici saranno quindi destinati a sparire in un grado complessivo più elevato? E’ giusto rivalutarli in un’ottica attuale o bisogna inventarsi qualche cosa per conservarli, come testimonianze di un’epoca?

I notri giorni hanno portato la tendenza a ragionare, su qualunque terreno, in termini di grado dal momento che, per definizione, la protezione non dovrebbe influenzarlo: così, considerato che si è alle soglie del XII grado, il VI è stato banalizzato, trasformato in 5c per non doverlo neanche più chiamare VI. Un grado dove, in falesia, cominciano i principianti. Ma chiunque si sia confrontato con qualche via tradizionale, sa che là il VI grado non è diventato più facile, anzi! Il suo mito sembra sopravvivere ai tempi per volontà degli stessi alpinisti, una sorta di antidoto, di autodifesa al progresso che avanza inarrestabile. Succede così che molti scalatori tradizionali guardano con soddisfazione arrampicatori da 7a e oltre cozzare contro i VI classici, senza riuscire a passare. D’altra parte come possiamo pensare che fior di scalatori si impegnassero allo stremo, solo pochi anni fa, dove oggi cominciano i principianti? E’ davvero solo una questione psicologica, dovuta cioè alla precarietà delle protezioni?

Intanto nelle relazioni si continuano a leggere fantasiose definizioni dei presunti VI: qualcuno ha coniato il termine di “VI classico”, come per fare i dovuti distinguo e rimarcare che il sesto di una volta non va confuso con quello odierno. Altri parlano invece di “VI sostenuto”, oppure scrivono nelle relazioni “diversi metri di VI”, come se sommare diversi passaggi di VI grado in sequenza senza riposarsi non bastasse per giustificare la valutazione VII… espedienti come altri per non chiamare le cose col loro nome e perpetrare così il mito! Ed in mezzo a questa babele c’è pure qualche compilatore di guide che sembra avere una tale venerazione per i pionieri da ritenere che persino oggi il VI grado classico sia raramente superato, e così comprime a dismisura le valutazioni, creando malumori tra il pubblico…

Alla luce di quanto sta succedendo da noi, forse fecero bene i francesi, nei primi anni ottanta, a coniare una nuova scala, quando la differenza diventò insostenibile e ingiustificabile. Aggiungendo le lettere, “a” in luogo di “-“, “b” per il grado netto e “c” per il “+” si allontanarono in modo definitivo dalla scala UIAA. Il VI francese divenne VIb ed infine 6b…con buona pace di tutti. Chi non ricorda le prime vie in Verdon, con quei sesti durissimi che parevan settimi? La Demande, la Ula, l’Eperon Sublime… quando comparirono poi le lettere e le prime tabelline di equivalenza tutti tirammo un sospiro di sollievo! Oggi c’è chi dimentica tutto questo e definisce la scala francese una scala creata apposta per l’arrampicata libera e da utilizzare in contrapposizione alla scala UIAA quando si parla di libera. Si dovrebbe pertanto, in una stessa relazione, gradare i passaggi in UIAA ed il tiro in libera in scala francese e questa sarebbe la panacea di tutti i mali che ci salverebbe dalla confusione. Costoro dovrebbero però rendersi conto che è un controsenso, sarebbe come dire una frase in inglese, tradurla in italiano e sostenere che si sta dicendo un’altra cosa! Un ennesimo espediente che non regge: il nodo da sciogliere rimane un altro e finchè non lo sciogliamo la confusione verrà perpetrata.

In fondo, osserveranno molti, sono questioni di lana caprina su cui non vale la pena perdere del tempo. Tanto sappiamo bene che finchè esisterà l’alpinismo e l’arrampicata, non si smetterà mai di polemizzare su etica e gradi, quasi non avessimo nient’altro di cui parlare. Sicuramente non arriveremo mai ad una soluzione ed ad un metro di valutazione oggettivo, e in un certo senso questo è un bene che preserva l’alpinismo dal divenire un’attività scontata. Potremo ancora a lungo continuare a vivere nel mito del favoloso VI grado, giocando sulle ambiguità e sulla soggettività delle valutazioni, magari volontariamente, cercando di preservare un passato ormai agonizzante… Tuttavia spesso dimentichiamo che valutare una via con un grado il più possibile corretto (cioè correggendolo se necessario, riportandone eventualmente la valutazione originale a testimonianza di un’epoca) dovrebbe servire all’alpinista per sapere se è o meno in grado di ripetere quella via senza cacciarsi nei guai. E il compilatore di guide che abbia un minimo di professionalità, fino a quando potrà ignorare questa semplice regola?

Pubblicato sulla Rivista del CAI nel 2008

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