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La passione per l’esplorazione

Una passione coltivata fin da bambino

Ero un bambino di nove anni quando mi sono legato per la prima volta gli scarponi, allontanandomi dal fondovalle verso i ghiacciai. Sette anni dopo ho stretto le mie prime scarpette di arrampicata, lasciando che la polvere ed il tempo irrigidisse i vecchi scarponi. Ma ho dovuto aspettare i 19 anni perché qualche cosa scattasse nel mio cervello ed i miei occhi fossero finalmente in grado di vedere la mia prima linea “invisibile”. Oggi mi chiamano apritore, attrezzatore, chiodatore… perché questo è il mio mestiere e perché ho infisso e lasciato più chiodi nella roccia di chi invece si limita a passare via leggero, senza lasciare nulla, ripercorrendo però le tracce che altri hanno lasciato. Ma rispetto a questi, ho reso visibile ciò che non lo era, a volte decifrando una complicata trama della roccia, solo apparentemente inerte. Ho lasciato qualche cosa di me stesso, buono o cattivo che sia… 

Questo libro cerca di fissare e raccontare con le parole questa grande passione per l’apertura, a cui ho dedicato ormai più di metà della mia vita. Oggi passo gran parte dei miei giorni a trovare linee invisibili, a guardare la roccia e cercare di vedervi un disegno, una via che mi dia la possibilità di esprimermi: resta il fatto che da quel giorno lontano, in quella piccola cava della provincia torinese, la mia vita non è stata più la stessa. Le rocce e le montagne sono cambiate ai miei occhi, sono divenute un’enorme tela bianca dove dipingere. Questi brevi scritti raccontano di come la mano incerta di un ragazzo abbia abbozzato i primi scarabocchi e poi abbia progressivamente cercato di crescere, diventando via via più sicura, inseguendo la chimera di rubare al tempo qualcosa di universalmente bello. Nella peggiore delle ipotesi è stata un’esperienza importante nella mia evoluzione di uomo, maturato in un universo più verticale che orizzontale. Passano gli anni, migliorano inevitabilmente le capacità e si affina la tecnica; il mondo intanto si evolve, anche quella che noi alpinisti chiamiamo “etica”. 

Non sono mai stato fedele ad una sola etichetta, al contrario ho scoperto il gusto di cambiare spesso matita o pennello, a seconda del supporto che avevo di fronte, tracciando segni pesanti o leggeri, a seconda del mio umore e di come la vita mi scorreva a fianco. Di conseguenza le mie linee invisibili a volte sono rimaste tali, evanescenti e mai più riprese; oppure sono state più concrete e indelebili, segnando probabilmente l’esperienza di molte persone che hanno ripercorso i miei passi. Perchè non c’è una sola verità, un’unica esperienza, che da sola ti dia la chiave per vivere la vita. L’alpinismo è spesso un violento atto di egoismo verso la società, una fuga, un gesto di narcisismo. “Aprire” una via agli altri può, al contrario, essere un gesto di altruismo, una possibilità, una porta aperta che ci permette di stabilire un legame emozionale con il nostro prossimo. 

Ho vissuto dunque appieno la contraddizione di ogni alpinista, smanioso di vivere la propria giornata da leone in solitudine ma poi desideroso di poterla raccontare agli altri e di essere quindi compreso, lodato e condiviso. Ho riempito infine la mia quotidianità di segni e disegni, migliaia di trattini che tagliano perpendicolarmente le più svariate geometrie. Certo, ho commerciato e venduto le mie vie invisibili, rendendole visibili a tutti, violentando la magia dell’ignoto, la mia stessa droga e ciò che mi resta di sacro nella vita. Ed ho trasformato emozioni private in avventure pubbliche, talvolta di massa, talvolta solo per una ristretta élite… guadagnandomi ammirazione e scherno senza acqua aggiunta, tanto da bruciare la gola… E’ stato però solo un atto di passione di un uomo a cui non era sufficiente vivere la scalata come un qualunque sport e ci ha visto e cercato qualcosa di più, non necessariamente di più nobile, intravedendo infine in essa una dimensione finanche artistica… Raccontare le mie vie e le mie giornate sulla roccia è stata un’ardua impresa, meglio sarebbe ripeterle, interpretarle, viverle. Perché forse, come nell’arte, non c’è niente da spiegare… Maurizio Oviglia (2006)